DELLA MARCIA NONVIOLENTA
di Carlo Buldrini*
C’è una bella immagine del grande corteo di monaci che lunedì 24 settembre ha percorso le strade di Yangon, la principale città di Burma (la Birmania), il paese dell’Asia meridionale che la giunta militare ha ribattezzato Myanmar. Centinaia di religiosi sfilano con la testa rasata e il saio color rosso vinaccia. A destra, nella fotografia, si vede un monaco gridare slogan. Con entrambe le mani tiene sollevata sopra la testa la ciotola nera e lucida delle elemosine. La tiene capovolta. È un gesto di sfida nei confronti della giunta militare. Domenica 16 settembre i monaci birmani hanno deciso di non accettare più le elemosine dai militari e dalle loro famiglie. Per gli uomini in divisa è stata una grave umiliazione. Fare donazioni al Sangha, la comunità dei religiosi, è infatti per il devoto buddhista uno dei doveri spirituali più importanti da compiere. Ma fu lo stesso Buddha a insegnare ai propri discepoli che l’“elemosina macchiata” andava rifiutata. Non si potevano accettare le offerte di coloro che avevano fatto ricorso alla violenza e avevano commesso ingiustizie nei confronti della popolazione. Così, martedì 18 settembre, due giorni dopo la decisione presa dai monaci, è iniziata a Yangon la protesta dei religiosi che per giorni ha riempito le strade della città sfidando il regime militare.
Burma (Myanmar), 55 milioni di abitanti, è un paese buddhista. I monaci appartengono alla tradizione theravada, la “scuola meridionale”. Sono i membri venerati della società birmana. In ogni cittadina di questo paese esiste una pagoda e un monastero, i luoghi tradizionali per la preghiera e l’istruzione scolastica. La pagoda Shwedagon, a Yangon, è il simbolo più importante della fede religiosa del popolo birmano. È di fronte a questa pagoda che prima Aung San e poi sua figlia Aung San Suu Kyi tennero dei famosi comizi da cui presero vita i movimenti che hanno cambiato la storia della Birmania contemporanea.
Da sempre i monaci buddhisti sono stati in prima fila nelle lotte del popolo birmano per la libertà. Fu così ai tempi del colonialismo britannico. A innescare la rivolta fu allora quella che gli inglesi chiamarono “The shoe question”, il problema delle scarpe. I colonialisti inglesi si rifiutavano di togliersi le scarpe quando entravano nei templi buddhisti birmani. Nell’ottobre 1919, nella pagoda di Eindawya a Mandalay, i monaci espulsero in malo modo un gruppo di inglesi che era entrato nella pagoda senza togliersi le scarpe. Il capo dei monaci venne condannato all’ergastolo con l’accusa di tentato omicidio. Diventò il simbolo della resistenza del popolo birmano contro il colonialismo britannico. Molti monaci persero la vita nella lotta per l’indipendenza della Birmania. Famoso fu il caso di U Wisara, il monaco che morì in prigione dopo uno sciopero della fame durato 163 giorni, per protestare contro la regola carceraria che gli impediva di vestire il saio monacale.
Ottenuta l’indipendenza il 4 gennaio 1948, U Nu divenne il primo capo del governo dell’Unione birmana. Cercò di avviare un programma di riforme economiche. U Nu voleva «promuovere l’uguaglianza, scoraggiare gli istinti di accumulazione e offrire a tutti un sufficiente benessere in modo che la gente potesse dedicarsi alla meditazione e alla ricerca del “nirvana” buddhista». Cacciato dai militari nel 1962, U Nu visse per molti anni in esilio in India. Nel 1980 tornò in Birmania. Diventò monaco buddhista e tale rimase fino alla sua morte avvenuta nel 1995. Dopo il colpo di stato del 1962 del generale Ne Win, i monaci birmani continuarono a manifestare a fianco della popolazione civile che chiedeva libertà e democrazia. Nel 1988, in quella che venne chiamata la “Rivolta 8888”, tutta la Birmania venne attraversata da movimenti di protesta. L’esercito soffocò la rivolta nel sangue provocando la morte di più di tremila persone, laici e religiosi. Anche il movimento che in questi giorni sta sfidando il regime militare, è iniziato con una protesta dei monaci. Una prima manifestazione di religiosi si era tenuta il 30 agosto nella cittadina di Sittwe. Ce n’era stata poi una seconda, il 5 settembre, nella città settentrionale di Pakokku. L’esercito l’aveva bruscamente interrotta. I monaci avevano preteso allora dalla giunta delle scuse ufficiali. I militari si erano rifiutatati. I monaci hanno allora dato il via alla protesta che è ancora in corso in tutto il paese.
La giunta militare sa bene di avere nei monaci il suo principale oppositore. Per giorni, l’esercito ha evitato di colpire il Sangha, la comunità dei religiosi, per paura che la rivolta si estendesse a tutta la popolazione civile e raggiungesse così un punto di non ritorno. Per affrontare l’emergenza, da giorni, il “gabinetto di guerra” è rimasto riunito in seduta permanente. Tra la popolazione era corsa voce che i militari avevano ordinato tremila tonache da monaco e avevano imposto a molti soldati di raparsi a zero. C’era il sospetto che i militari volessero infiltrare i cortei dei monaci con agenti provocatori. Ma, in queste ore, la situazione sembra essere precipitata. C’è la notizia di sei vittime, uccise dai proiettili dei militari. Centinaia di persone sarebbero state arrestate.
La popolazione della Birmania appartiene all’etnia tibeto-birmana. Tibet e Birmania sono dunque due paesi fratelli. Il Dalai Lama ha dato immediatamente il proprio sostegno alla protesta dei monaci birmani. Ha detto il capo spirituale del Tibet: «Esprimo tutto il mio sostegno e la mia solidarietà al movimento pacifico per la democrazia in corso in Birmania. Faccio appello a tutti coloro che amano la libertà di appoggiare questo movimento non violento. Esprimo inoltre il mio vivo apprezzamento e la mia grande ammirazione per i monaci buddhisti che manifestano in questi giorni per la democrazia e la libertà del popolo birmano». I dirigenti del partito comunista cinese hanno subito manifestato segni di forte nervosismo. Jiang Yu, il portavoce del ministero degli Esteri cinese, martedì 25 settembre ha invitato la giunta militare birmana ad affrontare «in modo adeguato» la protesta dei monaci. La Repubblica popolare cinese vuole assolutamente evitare che il “contagio” si estenda al Tibet. Quando il 22 settembre un migliaio di monaci si è messo in marcia dalla pagoda di Shwedagon, a Yangon, il corteo si è diretto verso il quartiere di Dagon dove ha sede la rappresentanza diplomatica cinese. La scelta dell’obiettivo della marcia non era casuale. I monaci volevano protestare anche contro la Cina, il principale sostenitore della giunta militare birmana. È così che le analogie tra Birmania e Tibet si fanno sempre più stringenti. Anche le tre ultime grandi manifestazioni per l’indipendenza del Tibet furono guidate dai monaci. Si tennero a Lhasa nel settembre e ottobre 1987 e nel marzo 1988 e, come la “Rivolta 8888” in Birmania, vennero soffocate nel sangue. Due premi Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi e Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, ispirano la lotta non violenta del popolo birmano e tibetano. Gli uni lottano per la democrazia. Gli altri per l’indipendenza. Entrambi vogliono la libertà.
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